Giuseppe Venanzio Barbetta

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Targa commemorativa di Giuseppe Venanzio Barbetta.

Giuseppe Venanzio Barbetta è nato a Premia nel 1869 ed è morto a Quinto (Genova) nel 1910. Poeta e scrittore.[1][2]

Cenni biografici

Nacque alla Cresta di Premia il 24 aprile 1869 da Venanzio e Domenica Bracchi. Primogenito di cinque figli, seguito da quattro sorelle e da un fratello morto infante, si trasferì ancor bambino a Baceno. Uno Schizzo autobiografico, conservato tra le sue inedite carte ci informa degli avvenimenti principali della sua non lunga esistenza:

“Giuseppe Venanzio Barbetta, nato “alla Cresta” frazione di Premia, nell’Ossola, nel 1869, conseguì la licenza ginnasiale a Pallanza e poi quella liceale a Domodossola presso i Rosminiani e infine (1896) la laurea in lettere all’Università di Torino, ov’ebbe, fra gli altri professori Arturo Graf. Non studiando per la scuola fu sempre uno scolaro mediocre, ma diverso e singolare per carattere, abitudini e metodi, spesso empirici, sempre sintetici. Spesso s’occupò di materie estranee ai corsi frequentati; così durante il ginnasio e il liceo studiò il francese e il tedesco e all’università lo si vedeva più frequentemente alle lezioni di botanica, di anatomia, di filologia, di medicina legale e persino alle cliniche che non alle lezioni della materia letteraria. Sua specialità erano poi lunghi viaggi a piedi di otto o quindici giorni, e visitò così parte del Piemonte, della Savoia e della Svizzera. In quinta ginnasio per capriccio e puntiglio imparò a memoria l’Inferno di Dante. Sull’alpe Devero, ove esiste un bel lago alpino, per capriccio e puntiglio costrusse una barca capace di cinque persone e che servì egregiamente per dieci anni. Prima, sotto l’azione della letteratura dei poemi di Milton, Klopstock, ecc…. sognava di scrivere qualche cosa di simile, per esempio un poema sul Giudizio Universale. Ma poi la lettura del Faust gli fece mutar strada. Nel liceo, prese a scrivere per divertimento proprio e dei compagni certe scenette comiche o caratteristiche colte a volo durante le lezioni o in altre occasioni. Tali abbozzi servirono il nucleo al suo primo libro, la Gogliardica “Giovani” che vide la luce a Milano nel Maggio del 1898, mentre la città, come è noto, andava a soqquadro. Il libro è preceduto da una bella prefazione della valente scrittrice e poetessa danese Rosalia Iacobsen, che fu pure colei che indusse l’autore a pubblicarlo. A cinque anni di distanza seguì la Tragicommedia dei Chiaccheratori. Ambedue i libri furono molto apprezzati dai critici e scrittori eminenti. Tralasciamo le pubblicazioni in opuscoli, riviste o giornali. Insegnò due anni nel Ginnasio superiore a Todi e a Castelfranco Veneto, poi si stabilì a Milano attendendo solo ad occupazioni letterarie. Come scrittore si serve solo dei suoi nomi Giuseppe Venanzio omettendo il cognome Barbetta.” Fin qui l’autobiografia.

Nel luglio 1888, a Baceno, compose la sua prima opera (rimasta inedita, in bozza): La prima notte fuor di Collegio, che celebra l’allegria degli studenti che festeggiano in giro per le strade di Domo l’inizio delle vacanze. Nel 1893 a Torino pubblicò una novella in forma di dialogo goliardico: Spiritelli. Firmandosi “Pin”, editò un felice libretto: Il goliardo. Almanacco dell’astrologo: Opere molto dilettevoli e necessarie a tutti e specialmente ai flemmatici, gottosi, maniaci, monomani, estenuanti, stanchi di vivere, cornuti, geni incompresi e soprattutto agli studenti e alle belle ragazze.

Il “suo primo libro” (cui accenna nell’autobiografia), Giovani, uscito a Milano nel 1898 avrebbe dovuto costituire la prima parte di una trilogia filosofica, cui nel progetto avrebbe dovuto seguire Le Uccise (mai scritto) e Mulini a vento, che per l’immatura morte fu la sua ultima opera. Giovani fu accolto con favore dalla critica, per la freschezza con la quale l’elemento dionisiaco, intriso di pessimismo ispirato alla filosofia di Schopenhauer si mescolava con gli entusiasmi e le ribellioni della giovinezza. Arturo Graf, che era stato suo maestro all’Università di Torino colse la promessa che quel giovane scrittore goliarda esprimeva nello specchiare nell’opera, letterariamente ancora immatura, i sogni e i disagi di quella generazione di giovani intellettuali. “Ho letto con interesse – scrive Graf a Barbetta – e dirò anche con ammirazione i suoi “Giovani”. Nel suo libro c’è novità, c’è un sentimento ed un pensiero tutto personale. Il simbolo è felicemente immaginato nel suo complesso… tutto lascia sperare anche meglio dell’opera sua, ma è già per se stesso molto più che una promessa”.

A Baceno, nel 1901, scrisse durante le vacanze un dramma in un atto (inedito), Tutto si fa per ridere, ambientato a Todi, in Umbria, dove Barbetta insegnava in quel tempo. A Milano, nel 1903, dove andò a vivere dedicandosi ormai a tempo pieno alla critica letteraria e al giornalismo, pubblicò la Tragicommedia dei chiaccheratori, parodia di un’azione tragica, che tradisce il pensiero di una mente sempre più irrequieta e attraversata dall’amarezza, dallo scetticismo, dalle delusioni esistenziali, già segnata dall’avanzare del “mal sottile”.[3]  

Il terzo volume della trilogia, Mulini a vento, dramma in tre atti scritto nel 1905, fu edito a Lugano nel 1907.

La montagna è la protagonista costante nelle prose e soprattutto nelle poesie di Barbetta, molte delle quali sono dedicate al Devero, a Crampiolo, ai fiori e alle stagioni dell’alpe, in quell’oscillare costante del suo animo tra il fascino della natura e i cupi pensieri di disperazione e di morte. Dalle allegre scampagnate (“Noi siamo i Cistellanti / Pel monte vagolanti / Un sacco d’allegria / Portiamo in spalla e via”).

Tra i fondatori della Società Escursionisti Ossolani, aveva scalato con Gian Domenico Ferrari, suo amico e compagno all’Università di Torino, morto a 29 anni in circostanze incredibili sul Gran Paradiso nel 1899 (sue lettere e poesie autografe sono rimaste tra le carte del Ferrari). O con Camillo Pavesi, rapito dalla stessa tragica sorte a 27 anni su di una parete del Cervandone.

Giovanni Papini, cui lo legò un carteggio letterario e filosofico (Papini si firmava “Gianfalco”), lo rimproverava di amare troppo sentimentalmente la montagna e la natura: “Dietro l’amico Schoperhauer e l’amico Leopardi Lei crede un po’ troppo alla natura e se ne fa una mito, una dea burlona e crudele” (Firenze, 10 maggio 1903). Ma Barbetta gli replicò: “Io vorrei Gian Falco, che Ella si trovasse almeno un giorno quassù fra le vette bianche delle Alpi, ove il sentimento della vita s’attinge puro alle sue prime fonti; ove non si ragiona, ma s’intuisce; ove ogni legge cede innanzi al saggio intuito”.

Figura complessa, “poeta degli incubi, delle ombre evanescenti, dei paesaggi amorfi, dei climi malati” (S. D’Amico), Barbetta visse le contraddizioni di una vita ribelle, sregolata, dominata insieme dalla più cupa rassegnazione e dal giovanile entusiasmo delle brigate dei “cistellanti”, dalla solitudine e da amori fugaci.

Negli ultimi tristi anni della malattia è stato l’amico pittore Carlo Fornara a tracciarne idealmente il ritratto di uomo inquieto: “Affrontò tutto: disagi, rampogne e sprezzo pur di seguire la sua chimera d’arte, d’indipendenza, di libertà! Fu per lei che aveva rinunciato alla cattedra di Todi, al posto di bibliotecario a Milano, e si ridusse a sognare, a operare, a soffrire nella modesta stanzetta di via Maddalena a Milano buona parte dell’anno e nella sua capanna di Crampiolo durante l’estate. […] Ma il riso, quel suo riso che gli scopriva tutti i bei denti e dava risalto alla sua fossatella del mento non lo aveva mai abbandonato. Non era più, ultimamente, quel ridere spontaneo che gli prorompeva fragoroso negli anni della speranza e che sovente risvegliò gli echi di Devero nel cuor delle notti estive e che risonò come fanfara trionfale su per le pendici del Cervandone gloriose di sole e canore di vento; era questo ultimo un riso spasmodico, convulso, un cachinno ch’egli metteva su la sua disperata filosofia come un’affermazione a sottolineare le sue freddure mordaci.”

Nella sua capanna di Crampiolo, tra le sentenze scritte sulle pareti, ve n’era una che evocava Seneca: “Solo chi saprà guardare da vicino la morte senza tremare, solo costui potrà muoversi nella vita con libertà totale”. La morte lo colse, “senza tremare”, a Quinto (Genova) il 17 febbraio 1910, non ancora quarantaduenne.

Il suo più bel ritratto fisico è quello che gli ha dedicato Virgilio Brocchi, nel romanzo La Gironda, immaginandolo sulla piazza del suo paese mentre attende un ospite: “Era alto, magro, le spalle dritte, con un aspetto leggero e poderoso di cavallo da corsa; e i baffi gli schizzavano scompigliati fuori dal viso ossuto, arrossato dal sole.”

Sulla sua casa di Baceno, lungo la via che dalla piazza porta a Rivera, lo ricorda un marmo inciso per volontà degli amici, ed un medaglione di Lorenzo Bazzaro:

Qui nella pace austera e luminosa

dei nativi monti adorati

Giuseppe Venanzio Barbetta

temprò l’anima ribelle contro le convenzioni della vita

attinse l’anelito di ingenua selvaggia poesia

trasfuso schietto nell’arte sua di scrittore

spezzata dalla morte precoce.

Un gruppo di memori amici

affinché le genti e le Valli dell’Ossola

ricordino il poeta

pose.

Opere

Opere edite: Il Goliardo, almanacco dell’astrologo Pin e Spiritelli, Torino, Baravalle e Falconieri 1993; Giovani, Milano, Soc. Editrice Lombarda 1898; La Tragicommedia dei Chiaccheratori, Milano 1903; Mulini a vento, Lugano 1907; L’Ossola e le sue valli, ed. a cura della Società Escursionisti Ossolani, Milano [1904].

Bibliografia

C. Fornara, Ricordo di Giuseppe Venanzio Barbetta, in “L’avvenire dell’Ossola”, 12 marzo 1910; C. Bettinelli, Il Cinquantenario di un dimenticato, in “Il popolo dell’Ossola”, 4 marzo 1960; G. Fizzotti, “Il più piccolo sogno vale per me tutti i tesori della terra” diceva Barbetta, in “Risveglio Ossolano”, 26 agosto 1965; F. Costa, Venanzio Barbetta, in “Oscellana”, n. 2 -1978, pp. 66-67; E. Rizzi, in Crosa Lenz - Rizzi, Storia di Baceno, Fond. Monti, 2006, pp. 181-183; P. Crosa Lenz, Storia di Premia, Grossi, Domodossola 2013, pp. 253-254.    

Note